La scrittura non è magia ma, evidentemente, può diventare la porta d’ingresso per quel mondo che sta nascosto dentro di noi. La parola scritta ha la forza di accendere la fantasia e illuminare l’interiorità.

Aharon Appelfeld

Se dovessi individuare il nucleo centrale delle mie storie indicherei, con assoluta certezza, la solitudine. Niente mi tormenta e, nel medesimo tempo, mi affascina più del duplice ruolo che la solitudine ricopre: straziante fino a togliere il respiro da un lato, liberatoria e confortante dall’altro. E, nel mezzo, le molteplici sfumature di cui si riveste. È un tema declinabile all’infinito, profondamente umano, che mi spinge – come fosse un’urgenza – a frammentarlo per analizzarne ogni singolo granello. Ed è stato proprio durante la stesura di Dall’oblio – romanzo che alla solitudine deve molto – che ho iniziato a riflettere sull’importanza della parola scritta.

Mi sono resa conto – nonostante in quel periodo fossi sommersa dalle parole – che nel nostro paese si scrive troppo poco. Dal tema di maturità alla tesi di laurea triennale, appunti a parte, non avevo più scritto una parola se escludiamo una parte dell’esame di Letteratura Italiana al primo anno di università. E meno ancora avrei scritto nei due anni seguenti, rimettendo mano a qualcosa di mio solo in vista della tesi magistrale. Poi di nuovo il nulla, se non sporadici articoli sul mio blog dell’epoca e qualche tentativo di scrivere un racconto. Ho dovuto attendere fino a metà del mio percorso di dottorato, immersa nella lettura di Proust e di Montale e sommersa da pagine e pagine di chiaro stile accademico a cui cercavo di uniformare i miei capitoli di tesi, per uscire dallo strano torpore che si era impadronito di me.

In cinque mesi ho scritto il mio libro. Dopodiché, nei lunghe settimane di revisione, ho notato che, inconsciamente, avevo utilizzato dei meccanismi narrativi precostituiti. Li avevo sicuramente appresi leggendo altri romanzi dato che non avevo mai studiato un manuale di scrittura. Perché, dunque, non imparare a riconoscerli e portarli alla luce? Da quel momento ho iniziato a interessarmi di tecniche narrative e di ciò che nei paesi anglosassoni viene comunemente definito come Scrittura creativa.

Ho scoperto un mondo inesplorato: tutto ciò che avevo letto e visto al cinema fino a quel momento assumeva una nuova consistenza. Ogni storia ha delle strutture fisse, archetipi che si ripetono, meccanismi e congegni messi apposta in determinati punti della narrazione. Non che ne fossi totalmente inconsapevole, ma capirne il funzionamento in profondità mi ha permesso di guardare alle storie da una prospettiva, se non diversa dalla precedente, quanto meno rinnovata.

Ed è stato allora, che ho pensato di iniziare a insegnare scrittura creativa: non solo per chi vuole imparare a scrivere, ma anche per chi desidera leggere con più attenzione e profondità un testo.

Che insegnare mi appassionasse non è stata una novità, anzi. In fondo, mi sono iscritta all’università e ho conseguito un dottorato anche per quello. Durante il mio percorso ho sempre pensato e concordato con le parole di Asimov, tanto da averne fatto una sorta di mantra: «Ardo dal desiderio di spiegare, e la mia massima soddisfazione è prendere qualcosa di ragionevolmente intricato e renderlo chiaro passo dopo passo. È il modo più facile per chiarire le cose a me stesso». Quello che non sapevo è quanto sarebbe stato gratificante insegnare la cosa che più amo in assoluto: raccontare storie.