Dove non ci sono echi, il silenzio è orribile come il peso che nei sogni impedisce la fuga.
Una premessa obbligata: dopo avere letto questo libro e avere, finalmente, sciolto il blocco del lettore che mi attanagliava da mesi, nutro il desiderio che Borges risorga e diventi il mio migliore amico. E lo perdono per avere detto: «Ci sono pagine, ci sono capitoli di Marcel Proust inaccettabili come invenzioni: ai quali, senza saperlo, ci rassegniamo come ai fatti insipidi e oziosi di ogni giorno». Questa frase – che un po’ ha ferito i miei sentimenti (Proust per me è un vero e proprio maestro) – è contenuta nell’Introduzione a L’invenzione di Morel, edizione Tascabili Bompiani. E sono state proprio le parole di Borges presenti in questa introduzione a convincermi a leggere l’opera di Casares. Impresa assai difficile, dato che, ad esclusione dell’Omero sudamericano (Borges!), la letteratura dell’America Meridionale non riesce a fare vibrare le mie corde. Ho provato con Marquez, Allende, Coelho: niente da fare. Ma Casares è stato una vera rivelazione!
Trama
La storia è presto detta: su di un’isola deserta della Polinesia, si nasconde un uomo sfuggito alla giustizia. La sua vita scorre tranquilla, tra maree e ricerca di cibo, fino a quando, su quel piccolo lembo di terra, non approda un gruppo di amici. Il fuggitivo – terrorizzato dal fatto di potere essere scoperto e riportato in prigione – si nasconde e li osserva da lontano, fino a quando non sviluppa una vera e propria ossessione amorosa per Faustine: una donna dalle sembianze tzigane, che parla un francese con un accento sudamericano. Decide così di provare a conoscerla, sfidando la sorte, ma ben presto si accorge che la donna e con lei anche gli altri amici facenti parte del gruppo – compreso Morel, l’inventore – non lo vedono. O forse fingono di non vederlo? Il protagonista inizia a pensare ad ogni possibile soluzione: ma niente può prepararlo alla sorpresa che lo aspetta.
La fugacità dell’esistenza
L’eternità a rotazione può sembrare atroce allo spettatore; ma per i suoi protagonisti è soddisfacente. Liberi da cattive notizie e da malattie, vivono sempre come se fosse la prima volta, immemori delle precedenti. Grazie alle interruzioni delle maree, inoltre, la ripetizione non è implacabile.
Il romanzo di Casares – breve e quasi privo di dialoghi, è un diario – sembra, almeno a una prima lettura, un pretesto per affrontare una delle tematiche care anche all’universo borgesiano: l’immortalità. Tuttavia, come ogni testo considerabile un capolavoro – e L’invenzione di Morel lo è – sfugge ad una interpretazione univoca. In un turbinio di generi e topoi, primo fra tutti quello dell’isola deserta e sperduta, Casares ci conduce all’interno di una una riflessione che prende in considerazione non solo la durata della vita e il suo possibile perpetuarsi all’infinito, ma anche l’arroganza di uno scienziato – Morel – che decide per gli altri, senza consultarli preventivamente. Ed è davanti a questo atteggiamento che il lettore inizia a domandarsi quali siano i limiti morali che la scienza e la tecnologia non dovrebbero travalicare.
Immerso in un luogo che pare paradisiaco, ma che non è altro che un simulacro mortifero – e Casares non ne fa mistero, disseminando sin dalle prime pagine elementi simboli di morte – il protagonista si trova di fronte a una decisione sofferta quanto inaspettata. Vivere per sempre una vita solitaria come semplice spettatore oppure trasformarsi in immagine eterna, ma senza alcuna possibilità di evoluzione? L’invenzione di Morel non è consolatorio e non fornisce risposte, anzi pone così tante domande da lasciare inizialmente il lettore spaesato e pieno di dubbi, per poi indurlo a una riflessione profonda sul senso della vita e dei valori che la governano. Ma non è forse questo il senso ultimo della vera letteratura?
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